Per una vera Storia del Nero d’Avola è il nuovo libro di Joe Castellano che indaga le origini di uno dei più importanti vitigni italiani. L’autore del libro, che è anche l’ideatore del celebre Blues & Wine Soul Festival, ha trovato ispirazione nei suoi ricordi d’infanzia. Nei luoghi dove il famoso ampelografo Barone Antonio Mendola di Favara, a fine 1800, aveva coltivato ben 3.000 diverse varietà di vite. Le origini del Nero d’Avola sono complesse e affascinanti, strettamente legate alla storia della Sicilia e influenzate dalle pratiche agricole di Fenici, Greci e Romani. “Di certo c’è un vitigno, che era calabrese, e che ha poi ha generato con 3 diversi incroci, i 3 vitigni ancora oggi più diffusi in Sicilia – afferma Castellano – questo vitigno si chiama Mantonico Bianco di Calabria“. Tra preoccupazioni per il nuovo mondo dei dealcolati e l’enoturismo di massa, si augura di tornare alla tradizione e alla riscoperta di mestieri antichi legati alla viticoltura come quello dell’innestatore.
Qual è stata l’ispirazione dietro la scrittura di questo libro sul Nero d’Avola?
Le ispirazioni penso siano state più di una… Diciamo che fin da quando era ragazzo le origini di questo vino e quindi di questo vitigno, mi apparivano assai antichi. Istintivamente da bambino, ogni pomeriggio dopo pranzo in estate, sotto le fronde di due grandi ulivi, mi piaceva osservare una collina. Nella sua aspra aridità, era intervallata da vigneti che creavano l’unica macchia di verde in quel podere. Da noi era conosciuto semplicemente come “Poggio di Conte”. Solo qualche anno dopo, appurai che quel Feudo di Poggio di Conte, era lo stesso dove il famosissimo ampelografo Barone Antonio Mendola di Favara, a fine 1800, aveva coltivato ben 3.000 diverse varietà di vite (unitamente all’altro Feudo di Contrada Due Peri). Fu la miccia di tante cose. L’avere raccolto avanti a queste terre, nella amata C.da Noce di Racalmuto, centinaia e centinaia di pezzetti di antiche anfore e di lucernai di antica origine greca e romana, fu qualcosa di importantissimo che mi fece ricollegare a quanto prima detto.
Puoi raccontarci di più sulle origini storiche del Nero d’Avola e il suo legame con la Sicilia?
Le origini sono assai affascinanti ed anche in parte complesse. Invito il lettore a scoprire nel libro quel processo di storia, archeologia ed ampelografia di questo incredibile vitigno, che ho dovuto sviscerare in questi mesi di trattazione. Dico solo che il cosìddetto “triangolo di acclimatazione” tra Calabria, Nord Sicilia ed Isole Eolie, ha generato gran parte dei vitigni autoctoni non solo siciliani, ma dell’intera Penisola Italica. Molto poco sono state le piante tramandate dalla Grecia, che invece hanno rinviato quasi sempre a fantomatiche origini. I Fenici, arrivati qualche secolo prima dei Greci, soprattutto lungo le cose orientali del Sud Italia (con il nome di Yoni), sono, invece, stati determinanti sia prima da soli che poi assieme ai Greci, per la coltivazione e l’ibridazione di talune varietà. Ovviamente i Greci ne hanno saputo sviluppare meglio i metodi di coltivazione. Solo intorno al 50 d.C. i Romani ci hanno consentito di eleggere in parte le definizioni dei vini di tutta Italia e di altre zone del vecchio Continente. Di certo c’è un vitigno, che era calabrese, e che ha poi ha generato con 3 diversi incroci, i 3 vitigni ancora oggi più diffusi in Sicilia. Questo vitigno si chiama “Mantonico Bianco di Calabria”.

Quali sfide hai incontrato durante la ricerca e la scrittura del libro sul Nero d’Avola?
Le sfide sono state veramente ardue. Ci ho dovuto quasi rimettere la vita, potrei dire scherzosamente, visti i problemi di salute che ho dovuto superare. Ho dovuto affrontare la storia e le origini di un vitigno di cui si sapeva veramente poco. Tutto era e ancora, in parte, è, nel buio più totale della polvere. Anche uno dei due vitigni che hanno generato il “Calabrese” (questo il vero nome di questo vitigno, di cui Nero d’Avola è solo un sinonimo) è rimasto perso nell’ignoto. Di fatto, solo dal 1555 si è parlato di vitigno “Calabrese”. Per il resto ho dovuto fare delle impegnatissime ricostruzioni, anche archeologiche, che hanno cercato a ritroso di arrivare a delle origini assai verosimili. Ultimamente, anche delle scoperte di famose Università internazionali, rivelate dopo l’elaborazione del mio libro e senza reciproca notizia, hanno confermato quanto era già inserito nel testo del mio libro. La cosa mi ha fatto ulteriore grande piacere.
Come pensi che il Nero d’Avola sia cambiato nel tempo, sia dal punto di vista agricolo che enologico?
Il Nero d’Avola – o meglio il Calabrese – fino a fine 1800 e quindi fino alla fillossera ed anche molto tempo dopo, per me è stato uno dei peggiori vini della Sicilia. Non dimentichiamoci che sia per favorire le grandi importazioni francesi e del Nord Italia, sia per dare a quelle stesse zone un grossolano vino da taglio, non si è avuto scrupolo di curare lo sviluppo e la potenzialità di questo vitigno. E la cosa è continuata fino a non moltissimi anni fa, visto che soprattutto in Sicilia si preferirono le terribili “Cantine Sociali”. La nuova identità di talune aziende, soprattutto a partire da metà degli scorsi anni ’80, ha finalmente generato nuovi metodi di coltivazione e di produzione che hanno letteralmente rivoluzionato la crescita di questo vino. Ma la cosa ha coinciso con qualcosa di cui nessuno fino ad oggi ha parlato: la scomparsa delle miniere di zolfo. Nel libro, invece, cerco di raccontare la centralità di questo momento storico, che dopo circa 200 anni, ha fatto ritornare in essere l’esistenza della migliore coltivazione del Calabrese.
Qual è il ruolo del Nero d’Avola nella cultura e nella tradizione vinicola siciliana oggi?
Oggi le aziende siciliane hanno un ruolo centrale per questo prodotto. Quasi il 65% delle reali produzioni viticole prevedono questo vitigno. Seppure io penso che Perricone e Nocera siano dei vitigni più eleganti nel patrimonio dei rossi siciliani, non c’è dubbio che, invece, il Nero d’Avola sia una pianta che abbia consentito una maggiore ecletticità alla ricchezza varietale della Sicilia. Bisogna però precisare i quattro areale storici: quello A (il più storico e più pregiato e che interessa la Sicilia centro meridionale), quello B (trapanese); quello B1 (più del ragusano) e quello B2 (più del siracusano e del basso catanese). Non ho identificato, per motivi storici, la poca diffusione della zona messinese.
Hai scoperto qualche curiosità o aneddoto interessante sul Nero d’Avola durante la tua ricerca?
Aneddoti e curiosità tantissime. Voglio lasciare a chi leggerà il libro la curiosità di scoprirlo. Ne cito uno però. In tempi Greci e Cartaginesi (quindi di origine fenicia), i fiume dell’Himera Settentrionale e dell’Himera Meridionale (odierno fiume Salso), furono centrali nella diffusione del vino e probabilmente di questa cultivar. L’antica Akragas (Agrigento), divenne una grande città e potenza, soprattutto grazie alla ricchezza della vendita di vino e di olio da parte degli antichi Greci. Gli stessi templi e grandi monumenti, furono generati da famosissimi commercianti di Akragas. Ma attorno a loro c’è anche un grande mistero. Né i Greci, né dopo i Romani, ci hanno tramandato il nome del vitigno più diffuso ad Akragas. È rimasto nel più assoluto mistero ancora oggi.
Quali sono i tuoi suggerimenti per chi vuole scoprire di più su questo vitigno?
Ritrovare i posti più suggestivi e la storia millenaria di queste Terre. Le Province di Agrigento, Caltanissetta e della bassa Provincia di Palermo in primis. Accanto ad esse è facile imbattersi in aziende con Nero d’Avola veramente di qualità del tutto superiore.
Come pensi che il futuro del Nero d’Avola si presenterà, considerando i cambiamenti climatici e le nuove tecniche di viticoltura?
Il Nero d’Avola dovrà affrontare la nuova sfida (ahimè…) del vino dealcolato. Trattandosi, in genere, di rossi abbastanza decisi e di grado, saranno costretti a prevederlo. Ma fa parte del ciclo dei tempi. D’altra parte, io sono stato tra i primi 20 anni a chiedere all’amico Prof. Attilio Scienza di parlare insieme sull’impatto dei cambiamenti climatici su vitigni e vini. Penso che nel 2005 ci avevamo visto lungo.
Qual è il messaggio principale che vuoi trasmettere ai lettori con questo libro?
Il messaggio che vorrei trasmettere è quello di cercare il più possibile il conoscere la storia. In centinaia di siti web e magazines, ho riscontrato solo decine e decine di copia-incolla attribuiti a pseudo origini del Nero d’Avola. In troppi casi si trattava di informazioni e nozioni totalmente fasulle, se non addirittura false. Mi auguro di cominciare e magari proseguire sulla elaborazione di una reale conoscenza, non solo di questo vitigno trattato, ma anche di altri.
Quali progetti futuri hai in mente legati al mondo del vino e della viticoltura?
I progetti sono tantissimi e le sfide giornaliere che si stanno delineando, ancora di più. Ritornare alla tradizione, dovrebbe essere per me il vero futuro per un’Enologia che si voglia salvare. Abbiamo corso troppo. In un mondo come quello del vino, dove gli antichi, invece, ci hanno insegnato prudenza, decantazione, scoperta della risorsa. Adesso invece, purtroppo, c’è l’ossessione del business a tutti i costi e le stesse aziende sono costrette ad adeguarsi a cose che forse nemmeno loro stesse amano sino in fondo. Creare delle Scuole del Vino, come in talune illuminate zone della Toscana, e la riscoperta di antichi mestieri come quelli dei potatori e degli innestatori, può e deve essere molto importante. Si devono avere dei paletti precisi per l’Enoturismo. Diversamente non ci saranno più agricoltori, ma solo operatori turistici e non ci sarà più il vino. Ma scomparendo il vino scomparirà anche la vita.