di Giancarlo Gariglio, curatore della Guida Slow WineSlow Food
Il momento è ora. Ora che siamo nel pieno della vendemmia, ora che per i produttori la situazione appare tra le più critiche nella memoria recente, almeno per chi non ha vissuto direttamente la tragedia del 1986, a cui nulla può essere paragonato.
Negli ultimi giorni si sono susseguite proposte, ricette, interventi, fino al “Manifesto per il vino italiano” promosso dal presidente degli enologi italiani, Riccardo Cotarella. Questo fermento dimostra quanto sia grave il momento, nonostante alcuni – anche per precisi ruoli istituzionali che li spingono alla prudenza – tendano a minimizzarne la portata.
Noi, che viviamo il mondo del vino da vicino, sia attraverso l’attività critica sia tramite l’organizzazione di eventi nazionali e internazionali di rilievo, sentiamo la responsabilità di contribuire al dibattito in corso. Vogliamo farlo con un’analisi approfondita della situazione e con una serie di proposte concrete, che possano non solo aiutare a superare la crisi, ma offrire l’opportunità di uscirne più forti di prima. Chi ama il vino deve per forza di cose impegnarsi a fondo per cambiare radicalmente la situazione, perché questo non è il momento della moderazione e dei piccoli aggiustamenti.
Per questo, dopo aver posto alcune domande a Maurizio Gily, agronomo, consulente, giornalista, divulgatore di lunga esperienza e, soprattutto, persona di indiscussa onestà intellettuale, abbiamo deciso di aprire il nostro sito a un ciclo di contributi esterni: ci auguriamo che molti vorranno partecipare. A parer mio ci sono tre grossi filoni da analizzare.

La produzione di uva
Il primo è pesante come un macigno ed è legato alla produzione: reimpianti, estirpi, denominazioni, disciplinari, mercato dei bollini, cisterne che girano, ecc… La politica che ha disciplinato impianti, espianti e aiuti di Stato è stata caotica e non coerente. Prima si paga la distillazione di crisi finanziando zone e vigneti che iper producevano uva di nessun valore qualitativo, poi si elimina finalmente questa pratica assistenzialista, senza alcuna logica di prodotto, e si decide di procedere a finanziare chi decide di togliere la vigna; poi, poco dopo, si paga chi la pianta, ma usa tutto materiale nuovo (mandando in vacca qualsiasi logica di buon senso ecologico e di riciclo, come ci ha raccontato Maurizio Gily). Una fisarmonica che naturalmente avrà aiutato i furbetti che hanno le antenne ritte quando girano soldi a pioggia, ma non di sicuro chi fa impresa seriamente e investe in modo oculato studiando le proprie potenzialità e il mercato.
Poi ci scontriamo con disciplinari vecchi e regole consortili che favoriscono chi fa quantità e non qualità, comanda il più grosso non chi ha creato brand celebri e ha aiutato intere denominazioni a essere conosciute in giro per il mondo.
Affronterei di petto il mare magnum di regole ed escamotage che facilitano il commercio di vino sfuso e anche i magheggi. Tutto questo va estirpato alla radice se si vuole cambiare radicalmente il nostro mondo. Le regole devono favorire chi investe denaro per far lavorare le persone in vigna e in cantina, non coloro che speculano sul vino invenduto, sugli avanzi di magazzino e sullo svuotamento delle cisterne con l’avvicinarsi della vendemmia. Quindi, ci vuole uno sforzo più convinto per capire come chiudere le porte a chi non rispetta le regole, chi gioca sui superi, chi fa il gioco delle tre carte, chi vende bollini (anche in questo caso, per approfondimenti sulla questione, si legga l’intervista a Gily).
Abbattere le rese dei vini da tavola è una decisione ineludibile così come anche numerosi Consorzi dovrebbero porsi l’obiettivo di diminuire la produzione dei vini a denominazione. Per un po’ di anni anche l’ampliamento della superficie vitata – che è all’1% a livello UE – dovrebbe essere bloccato o aperto solamente a ristrettissime categorie. In questa fase critica di sovraproduzione – abbiamo 37 milioni di ettolitri stoccati, con una produzione inferiore di 18 milioni nel 2024 – vanno fatte scelte complicate per tutti, ma va preservato il prezzo per evitare l’abbandono totale di un numero di ettari enorme visto che, con l’attuale ricavo dalla vendita delle uve, a volte non si pagano neppure i trattamenti fitosanitari e il carburante dei trattori.
Aprirei una parentesi (neppure tanto piccola) sul fatto che purtroppo quando perdiamo ettari vitati si rischia l’abbandono di quelli di collina che sono meno produttivi (ma molto più qualitativi) a vantaggio di quelli più meccanizzabili di pianura. Se non avete ben chiaro questo fenomeno basti fare un giro nelle denominazioni Soave e Romagna: un bel disastro.
… e di vino
Il secondo aspetto riguarda la produzione di cantina. In Italia, il 50% del vino è prodotto dalle cooperative, una realtà con cui è necessario confrontarsi. È quindi evidente che il sistema necessita di una riforma, poiché non funziona come dovrebbe. Occorre innanzitutto favorire l’unione tra realtà troppo piccole per competere efficacemente sul mercato, in modo che possano condividere risorse come amministrazione, marketing e consulenti. Una volta raggiunte dimensioni sostenibili, sarà fondamentale investire in professionalità, oggi spesso carenti. Non tutto può essere gestito dai soci né affidato a una governance composta da persone volenterose ma prive di esperienza nel mercato globale, un contesto che richiede competenze specifiche difficilmente acquisibili senza una formazione adeguata. Come afferma Maurizio Gily, servono meno serbatoi in acciaio e più laureati nelle cooperative: chi vuole crescere e restare competitivo deve necessariamente puntare su un management di qualità. Senza dimenticare che il vino è un prodotto molto particolare, e spesso professionisti di alto livello provenienti da altri settori non lo sanno affrontare correttamente: abbiamo visto esperienze fallimentari in tal senso. Ci vuole un giusto equilibrio tra capacità gestionali, conoscenza del settore e saggezza contadina. Lo stesso vale per i comunicatori: puoi essere un brillante ufficio stampa nel settore della moda o dell’industria, ma se ti metti a scrivere di vino la superficialità e gli strafalcioni non sono perdonati.
Anche se Slow Food è stato spesso accusato di esaltare il “piccolo è bello” – e io stesso sono stato in prima linea nella fondazione della FIVI – sono perfettamente consapevole delle molte inefficienze presenti anche nelle piccole imprese. Finché “Berta filava” ci si poteva permettere sprechi che in altri settori sarebbero sembrati assurdi, ma oggi, con costi strutturali in costante aumento, le piccole e medie aziende devono finalmente darsi una svegliata. Non è più sostenibile che ogni microcantina abbia il proprio magazzino o un parco macchine agricole che rimane inutilizzato, così come linee d’imbottigliamento faraoniche attive solo un mese all’anno. È davvero arrivato il momento di fare economie di scala e iniziare a condividere mezzi e servizi. Tra i tanti obiettivi che consorzi e associazioni di categoria si pongono, forse questo dovrebbe essere considerato prioritario. Finanziare aggregazioni e aziende di servizi in grado di generare economie di scala nei distretti vitivinicoli sarebbe una scelta estremamente saggia da parte delle nostre istituzioni.
Promozione e marketing
E veniamo al terzo punto: la promozione e il marketing. Anche in questo caso il tema è ampio, complesso e tutt’altro che lineare. Negli anni sono stati investiti ingenti fondi nei programmi extra europei – i noti OCM – che, in termini numerici, hanno ottenuto un successo indiscutibile. Facendo i conti della serva, a fronte di investimenti pubblici, molte aziende hanno visto crescere in modo significativo il valore delle esportazioni. Dunque, a essere onesti, queste misure hanno svolto un ruolo positivo evidente. Il problema, semmai, è nato dai soliti furbetti del quartierino: realtà che hanno utilizzato questi fondi per pagarsi brand ambassador o personale non destinato a potenziare l’export, ma per scopi del tutto diversi, o che hanno semplicemente distorto le finalità dichiarate per accedere ai contributi.
Purtroppo, comportamenti di questo tipo ci sono sempre stati e continueranno a esserci, ma il risultato è che, proprio a causa di questi abusi, l’accesso ai finanziamenti è diventato via via più complicato e oneroso. Questo ha escluso molte realtà che, per dimensioni, non hanno gli strumenti per affrontare la burocrazia e restano intimorite da meccanismi che non comprendono appieno. Ed è qui che emerge un nodo cruciale: la mancanza di professionalità di alto livello. Mancano figure capaci di innovare, di muoversi con competenza su mercati internazionali sempre più competitivi; manca la formazione e, più in generale, l’ambizione all’eccellenza. Il settore vitivinicolo è tra quelli cresciuti di più in termini di mercato, visibilità e fatturato, ma resta ancora un mondo piccolo, che fatica a eccellere al di fuori della sfera produttiva.
Non ci si può accontentare e anche nella fase della commercializzazione bisogna rincorrere le economie di scala unendo le forze nella promozione senza aver paura della concorrenza interna. Troppa è la frammentazione all’estero e pochissimo si è puntato su un brand Italia o quello delle singole regioni (ci si affida quasi esclusivamente alle denominazioni locali), ma le azioni sono state isolate, regionali, provinciali, consortili.
La tanto vituperata comunicazione, con noi pseudo giornalisti e pennivendoli che come tanti Tafazzi ci tiriamo le bottiglie sui maroni perché abbiamo sbagliato tutto nel raccontare il vino, merita un discorso a sé perché è indubbio che non esista un futuro per coloro che fanno il nostro mestiere. Venticinque anni fa esatti ero tra i più giovani della mia categoria quando mi muovevo negli eventi e ora mi fa una tristezza immensa pensare come sia rimasto ancora uno dei più giovani tra coloro che vivono in modo professionale di questo lavoro.
Com’è possibile che la comunicazione di un prodotto abbia successo se non si investe praticamente nulla? Se si pretende che tutto cada dall’alto? Se le aziende, le istituzioni e gli stessi appassionati pretendono di essere informati, con la I maiuscola, senza sborsare un euro o piuttosto si decida di demandare tutto a una critica straniera – americana in particolare – che giustamente vive di logiche differenti e di sensibilità lontane mille miglia dalla nostra cultura enogastronomica?
La buona notizia è che con tutte questi errori marchiani siamo ancora qui a raccontarla, e il vino piange per una flessione di qualche punto percentuale. Non siamo di fronte a un 6-0, non viviamo una Caporetto, ma è ora di riconoscere che siamo in una crisi sistemica, potenzialmente grave, forse gravissima se non decidiamo di agire con una determinazione e un rigore che non abbiamo mai espresso ma che sono certo che i vignaioli possiedano.
Ci salveremo solo e soltanto con una sterzata decisa, che metta al primo posto la professionalità in tutte le fasi che contraddistinguono la produzione ovvero dal grappolo allo scaffale, senza scorciatoie.
Il mio, il nostro è un appello a tutta la filiera: il momento è ora, cambiare è ineludibile, altrimenti non lamentiamoci se il vino perderà quel fascino che lo ha benedetto, se i giovani si rivolgeranno ad altro quando vorranno bere… Perdere un patrimonio millenario, ripreso con intelligenza negli ultimi quarant’anni con professionalità e capacità, tanto da costruire una solida economia, sarebbe troppo stupido.
(Questo articolo è apparso nel Numero #25 della Newsletter Slow Wine, per chi ama il vino buono pulito e giusto: Crisi del vino, bisogna agire ora – Slowine)
